Le idi di marzo: la fine del Divo Giulio
15 marzo del 44 a.C.
Una puntata del programma Cronache dall'antichità di Rai Storia ricostruisce gli avvenimenti delle famose "Idi di marzo", il 15 marzo del 44 a.C., quando Giulio Cesare venne brutalmente assassinato a Roma, di fronte alla sede del Senato di allora, localizzata dagli archeologi in un punto di piazza Argentina. Cristoforo Gorno guida il telespettatore sui luoghi dell'azione, dove venne compiuto il più famoso regicidio della storia antica.
Il dictator si lasciò convincere da Decimo Bruto a presentarsi ai senatori, nonostante i presagi avversi e i tentativi di uno schiavo, del maestro Artemidoro di Cnido e dell’aruspice Spurinna di metterlo in guardia. Stando alle fonti alle 11 Cesare uscì di casa senza scorta e percorse la Via Sacra tra due ali di folla acclamante. Arrivato nella Curia, mentre Trebonio, un congiurato, tratteneva il generale Marco Antonio con una scusa, il dictator venne circondato dai congiurati, i cesaricidi.
Tullio Cimbro si gettò ai suoi piedi, come per implorarlo, tirandogli la toga: era il segnale convenuto. Publio Casca colpì Cesare con il pugnale, ferendolo: «Scelleratissimo Casca, che fai?», reagì lui, colpendolo a sua volta. Poi gli altri congiurati gli furono addosso. Quando vide brillare la lama del “suo” Marco Bruto, Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo, suo nemico nella guerra civile del 49 a.C., e morì colpito da 23 coltellate.
Lo scrittore latino Svetonio (70-126) riferisce che morendo Cesare disse in greco Kai su teknòn (anche tu, figlio), perché quella era la lingua dell'élite romana. Ma questa versione dei fatti è poi messa in dubbio dallo stesso Svetonio, secondo il quale Cesare, in quel fatidico giorno delle idi di marzo del 44 a. C., emise solo un gemito, senza riuscire a profferire parola. La frase in greco (tradotta in seguito in latino con l’aggiunta del nome di Bruto) ebbe però fortuna: oltre allo sgomento di Cesare nel vedere Marco Giunio Bruto, suo pupillo, tra i congiurati, esprime il dramma universale del tradimento.
I senatori fuggirono in preda al panico. I congiurati si sparpagliarono per informare il popolo. E il corpo restò nell’atrio dell’edificio per ore, prima che tre schiavi lo caricassero su una lettiga per riportarlo a casa.
Il dictator si lasciò convincere da Decimo Bruto a presentarsi ai senatori, nonostante i presagi avversi e i tentativi di uno schiavo, del maestro Artemidoro di Cnido e dell’aruspice Spurinna di metterlo in guardia. Stando alle fonti alle 11 Cesare uscì di casa senza scorta e percorse la Via Sacra tra due ali di folla acclamante. Arrivato nella Curia, mentre Trebonio, un congiurato, tratteneva il generale Marco Antonio con una scusa, il dictator venne circondato dai congiurati, i cesaricidi.
Tullio Cimbro si gettò ai suoi piedi, come per implorarlo, tirandogli la toga: era il segnale convenuto. Publio Casca colpì Cesare con il pugnale, ferendolo: «Scelleratissimo Casca, che fai?», reagì lui, colpendolo a sua volta. Poi gli altri congiurati gli furono addosso. Quando vide brillare la lama del “suo” Marco Bruto, Cesare cadde ai piedi della statua di Pompeo, suo nemico nella guerra civile del 49 a.C., e morì colpito da 23 coltellate.
Lo scrittore latino Svetonio (70-126) riferisce che morendo Cesare disse in greco Kai su teknòn (anche tu, figlio), perché quella era la lingua dell'élite romana. Ma questa versione dei fatti è poi messa in dubbio dallo stesso Svetonio, secondo il quale Cesare, in quel fatidico giorno delle idi di marzo del 44 a. C., emise solo un gemito, senza riuscire a profferire parola. La frase in greco (tradotta in seguito in latino con l’aggiunta del nome di Bruto) ebbe però fortuna: oltre allo sgomento di Cesare nel vedere Marco Giunio Bruto, suo pupillo, tra i congiurati, esprime il dramma universale del tradimento.
I senatori fuggirono in preda al panico. I congiurati si sparpagliarono per informare il popolo. E il corpo restò nell’atrio dell’edificio per ore, prima che tre schiavi lo caricassero su una lettiga per riportarlo a casa.