Cesare Beccaria e la Giustizia

Un giurista e filosofo illuminato

Giurista e filosofo, Cesare Beccaria (1738–1794), marchese di Gualdrasco e di Villareggio, è considerato uno dei massimi esponenti dell'Illuminismo italiano; nato a Milano sotto l’Impero asburgico, studia a Parma dai Gesuiti e si laurea in Giurisprudenza a Pavia. 
Beccaria aderisce all'Illuminismo dopo la lettura delle “Lettere persiane” di Montesquieu e del “Contratto sociale” di Rousseau, grazie ai quali si entusiasma per i problemi filosofici e sociali ed entra nel Cenacolo di “Casa Verri”, dove aveva sede anche la redazione del “Caffè”, il più celebre giornale politico-letterario del tempo, per il quale firmò anche alcuni articoli. 
Nel 1764, pubblica “Dei delitti e delle Pene”, la sua opera più famosa, ispirandosi alle discussioni che si tenevano nel Cenacolo del conte Pietro Verri (1728–1797) e che vertevano, soprattutto, sullo stato deplorevole in cui versava la giustizia penale. 

Il trattato toccava argomenti scabrosi all'epoca come il tema della tortura e della pena di morte, cui Beccaria si dichiara decisamente contrario invocandone una riforma

Il libro ebbe molto successo in Francia; in Italia, invece, venne messo al bando nel 1766 a causa della distinzione, sottolineata dall'autore, tra "peccato" e "reato".
Nel 1768, dopo aver ottenuto la cattedra di Scienze Camerali (economia politica), creata per lui nelle scuole palatine di Milano inizia a mettere mano ad una grande opera sulla convivenza umana, purtroppo mai completata. Nel 1771, Beccaria entrava a far parte del Supremo Consiglio dell'Economia e dell'Amministrazione austriaca.: in questa veste contribuì all'attuazione di una serie di importanti riforme. 
Beccaria muore a Milano all'età di 56 anni a causa di un ictus. Suo nipote Alessandro Manzoni, figlio di Giulia, primogenita di Beccaria, riprenderà molte delle riflessioni del nonno e di Pietro Verri, nei suoi “La colonna infame” e “I promessi sposi”.

FOTO DI COPERTINA
Cesare Beccaria, 1820 ca., incisione di Giuseppe Benaglia da un dipinto di Giuseppe Bossi