I ritratti di Fra' Galgario, ragione e sentimento

Un pittore e frate del Settecento

La riscoperta di Giuseppe Ghislandi (1655-1743), noto come Vittore Ghislandi o Fra’ Galgario, esponente di primo piano del realismo lombardo è dei primi anni del Novecento. Nel 1953, Roberto Longhi scriveva di lui:

Il maggior ritrattista del Settecento, non in tutta Bergamo, ma in tutta Europa”

Nato a Bergamo, gran parte delle notizie sull’artista sono state riportate dal conte Francesco Maria Tassi (1710-1782), autore delle “Vite De’ Pittori Scultori e Architetti Bergamaschi” (1793), pubblicato postumo, la cui attendibilità è in parte garantita dalla conoscenza diretta che il biografo ebbe con Ghislandi del quale era stato anche allievo dilettante.
Ghislandi, prima di diventare frate, compie la sua prima formazione artistica nella città natia dove, tra il 1670 ed il 1675, fu apprendista presso la bottega di Giacomo Cotta e successivamente, in quella del fiorentino Bartolomeo Bianchini. 
Evidente nella poetica del giovane pittore, la memoria dei ritratti introspettivi, severi e religiosi di due antenati che vissero la sua terra, i grandi artisti del “vero” Giovan Battista Moroni (1520-1578) e Carlo Ceresa (1609-1679).
Negli ultimi anni del Seicento, in due lunghi periodi intervallati da brevi ritorni alla città natale, Ghislandi soggiorna a Venezia dove, nel 1675, diventa frate nel convento di San Francesco da Paola con il nome di Vittore. 
Di sicuro, la scelta del giovane non fu di convenienza, come spesso accadeva allora, ma fu piuttosto dettata dalla sua spiccata sensibilità nel concepire la vita con la consapevolezza della fine.

Fra' Galgario è stato un religioso fervente, come scriveva il Tassi, ma di carattere introverso rimase in disparte coltivando umiltà e modestia

Durante il secondo periodo veneziano, il pittore completò la sua formazione nella bottega di Sebastiano Bombelli (1635-1719), noto anche come ritrattista e dotto conoscitore di Paolo Veronese. Ghislandi fu prima suo allievo, poi divenne aiutante arrivando negli anni a “superare il maestro”. 
Venezia offriva al giovane bergamasco la conoscenza diretta dei classici cinquecenteschi: Bellini, Giorgione, Tiziano, ma soprattutto Veronese. Infatti, Ghislandi iniziava a dipingere trattando la materia con effetti pastosi, ricchi di luce: incarnati e stoffe, visi e abiti dei suoi personaggi erano resi palpabili grazie a uno studio attento di colori e pennelli. 

La comprensione e lo studio dei grandi maestri veneti, non fu solo tecnica, ma soprattutto sentimentale 

A Venezia, Ghislandi aggiornò la sua cultura a livello internazionale, conobbe Sebastiano Ricci (1659–1734), il boemo Jan Kupecký (1666–1740) ed entrò in contatto con molti committenti stranieri. 
Di questi primi quarant’anni anni di vita del Ghislandi esistono solo notizie biografiche, ma quasi nulla di una produzione artistica in parte perduta. L’artista realizzò anche opere di carattere sacro per le chiese della provincia bergamasca e il Tassi raccontava di alcuni affreschi per abitazioni private. 
Rara testimonianza della buona fama raggiunta da Ghislandi nel secondo soggiorno veneziano, un’originale “Ritratto del podestà Filippo Farsetti”, datato 1691. Farsetti, podestà e capitano di Crema, è rappresentato a figura intera in toga e stola cremisi bordate da pelliccia di ermellino. Membro di una famiglia appartenente al patriziato veneziano il cui stemma è visibile alle spalle, nel ritratto indica con la mano destra nella parte alta del dipinto l’apparizione miracolosa della Madonna alla giovane Caterina degli Uberti.

Nel 1701, circa, Ghislandi ritorna a Bergamo dove si trasferisce nel convento di Galgario: da qui, il soprannome che lo ha reso noto

Abbandonato ogni soggetto sacro, Fra’ Galgario inizia a ritrarre personaggi della società bergamasca del tempo, interpretandone la psicologia: passioni, dolori, speranze e presentimenti, non celano la frivolezza di aristocratici e nobili oramai in declino.
Il successo fu immediato, non solo in ambito locale, ma in tutta Italia e ben presto anche fuori dai confini nazionali.
L’abilità tecnica affinata nel corso della lunga formazione, unita alla spiccata capacità introspettiva, consentirono al pittore di realizzare in breve tempo un gran numero di ritratti, sia per nobili famiglie del tempo come gli Albani, i Vailetti, i Rota, i Secco Suardo, i Roncalli, sia di personaggi anonimi.
“Ritratto del conte Giovanni Secco Suardo con domestico”, è tra i più celebri di Fra' Galgario per freschezza d'invenzione e interpretazione, non priva di quello stesso spirito di "denuncia sociale" che fu all’epoca anche di Giacomo Ceruti (Giacomo Ceruti, il Pitocchetto).
Il giovane nobiluomo, qui raffigurato all'età di circa quarant'anni, era figlio di Girolamo, ritratto in gran pompa dallo stesso pittore nel 1711. Giovanni si presenta en deshabillé, trasandato rispetto al padre, con la testa rasata priva di parrucca e la camicia slacciata, così come la livrea del domestico baffuto. I due personaggi appaiono in una dimensione privata nella quale l'etichetta viene elusa: l’approccio illuminista del pittore è frutto di una coscienza che non appartiene alla cultura e alla moda francese del tempo, ma che anticipa le temperie romantiche di fine secolo.

Questi raffinati signori colti nell’intimità della propria dimora diventeranno un topos nei ritratti di Fra' Galgario e della sua scuola 

La posa di Giovanni Secco Suardo ricalca quella di molti altri ritratti di signori e forse, ciò potrebbe imputarsi all'utilizzo da parte del frate, come racconta il Tassi, di un manichino: "una figura di legno quanto il vivo, la quale nelle giunture tutta snodata essendo, volgeva e atteggiava a proprio piacimento". 
La fattura pittorica è veloce, le pennellate larghe e a piccoli tocchi restituiscono la qualità materica degli oggetti; tuttavia, in questa fase intermedia dell'attività di Fra' Galgario, la composizione è ancora studiata e costruita, diversamente dalla fase matura quando dominerà la resa naturale e immediata del personaggio.
“Ritratto del conte Giovanni Battista Vailetti”, rappresenta uno dei più famosi ritratti dell'artista, databile alla fine del secondo decennio del Settecento. La tela costituisce una vera e propria "natura morta di stoffe preziose". Per la sua stessa origine lombarda, memore del “naturalismo” cinquecentesco del Moroni, Fra’ Galgario si stacca dalla ritrattistica internazionale dell’epoca, frivola e formale, restituendo un uomo colto e raffinato, nell’intimità del suo studio. Qui, Fra’ Galgario gioca tra un'interpretazione idealizzata e una lettura realistica, due caratteri uniti dal rigore proprio di un artista illuminista.
Nel 1717, la fama raggiunta gli permise di fare il ritratto al cardinale bolognese Giacomo Boncompagni, oggi perduto e di essere accolto quale membro d’onore della prestigiosa Accademia Clementina
Lo stesso sguardo ironico e a tratti graffiante, Fra’ Galgario lo getta sulle donne. “Ritratto di Elisabetta Piavani Ghidotti” non ha nulla a che vedere con le matrone bergamasche del Seicento: la nobile dama sfoggia un abito alla francese, con portamento sensuale e impertinente.   

Un’altra prova della fama raggiunta dall’artista, sta nel ritratto che Giambattista Tiepolo si fece fare tra il 1732 e ‘33

In questi anni di successo, Fra’ Galgario inviava il suo “Autoritratto” alla Galleria degli Uffizi, mentre alcune sue tele varcavano i confini nazionali per essere accolte in importanti collezioni europee, come quella del Maresciallo Schulenberg e del Principe Eugenio di Savoia. 
Il più celebre tra i suoi “Autoritratti”, inizialmente destinato alla Galleria di Firenze, sembra sia rimasto presso il Convento del Galgario prima di essere acquistato dal conte Carrara. L’immagine di un intellettuale dal volto smunto e dilaniato nell’anima restituisce, con distacco, la cognizione del tramonto di un’epoca, dove solo la fede, la pietà e il sentimento possono opporsi al declino.

La fama di Fra’ Galgario, fu senza dubbio legata alla particolare vivacità cromatica con cui l'artista sapeva rendere incarnati, sete, velluti e materie varie in un gioco di luci e ombre vive e palpabili

La ricerca ossessiva della giusta tonalità cromatica, in particolare quella rosso scuro, “forte come sangue raggrumato” (Tassi), era ottenuta con lacche da lui stesso prodotte con procedimenti tutt’oggi sconosciuti: sfavillii di rosso, rosa perlaceo, grigi tortora, spruzzi di argento e oro, conferivano calore ai volti e respiro alle bocche dei suoi personaggi. 

Il rapporto con la materia pittorica divenne per Fra' Galgario qualcosa di intimo, al punto che dagli anni Trenta del Settecento il Tassi racconta che l’artista lasciò i pennelli per “dipingere col dito anulare tutte le carnagioni” 

Le luminosissime “lacche” erano talmente famose ed invidiate ai suoi tempi che altri artisti avrebbero fatto carte false per averle; esistono lettere di richiesta anche da parte di Sebastiano Ricci che chiede a un conte bergamasco di intercedere per lui.
Il “Ritratto di giovane in veste di artista”, in posa con il pennello in mano, rientra nelle serie “teste di carattere”, o anche “capricciosi abbigliamenti” giocati sul binomio blu e rosso, tanto caro all’artista, come pure lo strano berretto che torna più volte nei ritratti di Fra’ Galgario.

Negli ultimi quarant’anni anni di vita, la sua produzione artistica fu particolarmente abbondante, tanto che non c’era personaggio dell’aristocrazia, mercante o semplice cittadino che non avessero una sua opera

Sono questi gli anni dove la pittura di Fra’ Galgario si confronta con quella di un giovane esordiente, il bresciano Giacomo Ceruti (1698-1767). Vicini nel modo di intendere la materia pittorica e di far propri i sentimenti del ritratto, i due artisti raggiunsero un dialogo e uno scambio altissimo. Ceruti, innamorato del colore e del penetrante sguardo dell’anziano maestro, ispirò a Galgario la possibilità di allargare il suo teatro umano, guardando anche a quell’epica popolare fatta di miserie che il giovane artista stava ritraendo.

L’indagine sociale che Fra’ Galgario aveva riservato alla nobiltà, si estese così in modo sistematico agli umili, ai poveri, agli artigiani e ai contadini

La sua tavolozza divenne cupa, quasi fangosa e così l’umore dell’artista.  
Nonostante le debolezze dell’età e le malattie, Fra’ Galgario continuò a dipingere fino alla morte, avvenuta nel Convento del Galgario nel 1743. 

FOTO DI COPERTINA
Fra' Galgario, Autoritratto, 1730, olio su tela, 48x53cm., Pinacoteca del Castello Sforzesco, Milano